lunedì 10 dicembre 2012

Una bellissima recensione di Mario Setta

Tra un delinquente e un prete

16 10 2012

di Mario Setta


SULMONA.-“Lo statuto dei gabbiani” (ed. Milieu 2012) è il titolo d’un libro che raccoglie gli scritti e racconta la vita del famoso “bandito gentile” Horst Fantazzini, curato dalla compagna Patrizia Diamante con prefazione di Pino Cacucci. In realtà,  neanche il titolo riesce a dare l’immagine dell’idea di libertà incarnata da Fantazzini. Forse, volendo parafrasare Rousseau, che nel “Contratto sociale” esordisce con l’affermazione “L’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene”, Horst Fantazzini, paragonandosi al gabbiano,  nega il concetto stesso di statuto, perché i gabbiani “sono nati per volare liberi e per loro non ci sono statuti, né leggi, né regolamenti” In “Ormai è fatta!”, trasposto nell’omonimo film di Enzo Monteleone con Stefano Accorsi, mentre Horst Fantazzini sta raccontando dettagliatamente la sua evasione dal carcere di Fossano, cita Bernanos de “I grandi cimiteri sotto la luna”, la più lucida e tremenda denuncia contro la guerra civile spagnola. “Io credo inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini liberi”, scriveva allora Bernanos.
E Fantazzini ne riporta una frase lapidaria: “La minaccia peggiore per la libertà non consiste nel lasciarsela strappare – perché chi se l’è lasciata strappare può sempre riconquistarla – ma nel disimparare ad amarla e nel non capirla più”. Ma è lui stesso a sentirsi in colpa per quello che sta facendo: “Sì, c’è dell’egoismo in quanto sto facendo, ma se le circostanze me lo permetteranno, questo potrebbe anche essere il primo passo d’un cammino più lungo”.Quel cammino, allora immaginato, lo conduce da un carcere all’altro, da un’evasione all’altra: 34 anni da gulag. Come nei racconti della Kolyma di Salamov o le lettere dalle Solovki di Florenskij. Una voglia di libertà frustrata, repressa. Una personalità mai domata, quella di Fantazzini,  fino all’ennesimo ed ultimo tentativo di rapina in banca, quel 19 dicembre 2001, in via Mascarella, a Bologna. E, tre giorni dopo, la morte per aneurisma aortico. A 62 anni. “Nessuno muore mai del tutto finché c’è qualcuno che lo ricorda” ha scritto nella prefazione Pino Cacucci. A me, il ricordo di Horst, è impresso nel sangue.E’ lui stesso a raccontarlo nella lettera, scritta dal carcere di Lecce il 4 ottobre 1975: “Carissimo don Mario, ti sorprenderai senz’altro ricevere una lettera da me dopo un così lungo silenzio, ma il fatto è che oggi ho ricevuto una comunicazione giudiziaria per i fatti dell’anno scorso ed ho visto con sorpresa che tu sei imputato con me. […] Carissimo Mario, da allora ho pensato molto spesso a te, credo che non ti dimenticherò mai. Avrei voluto scriverti ma non l’ho fatto perché compresi che il procuratore era convinto che io e te ci conoscessimo da tempo. Gli era incomprensibile che tra un delinquente e un prete potesse crearsi, in momenti drammatici come quelli, una corrente fatta di simpatia, solidarietà, calore umano. Io ho di te un ricordo bellissimo e io, che non sono credente, vorrei che ce ne fossero tanti di preti come te, sacerdoti che, più che per la bellezza dell’aldilà, sono disposti a battersi affinché il contenuto sociale presente nell’insegnamento del Cristo possa realizzarsi nell’esistenza terrena d’ogni creatura umana. Ciao, Mario. Non volermene troppo per le seccature che ti ho causate. T’abbraccio fraternamente, Horst”.
Nell’evasione di Sulmona, giovedì  9 maggio 1974, ero nella casa parrocchiale che dista circa cento metri dal carcere. Parroco in quelle frazioni, ma schierato con altri sacerdoti italiani a favore della legge dello Stato sul divorzio, il cui referendum avrebbe avuto luogo domenica 12 maggio. Ero stato minacciato dal vescovo di “sospensione a divinis”, cosa che avvenne qualche tempo dopo. Stavo battendo  a macchina il programma di terza media per i lavoratori che frequentavano il corso serale di preparazione agli esami. La porta della canonica era sempre aperta. Horst salì le scale, si presentò sull’uscio della stanza dove scrivevo, richiamato dai colpi sulla tastiera. Puntò contro di me la pistola. Restammo per alcuni minuti in silenzio.  Soli. Mi disse: “Ce l’ho fatta anche qui”. Un carcere, dove un’evasione sembrava inconcepibile. Vide un poster di Gramsci, lesse i nomi di Silone, Brecht, Remarque, Levi, don Milani, ecc.  Si sentiva a suo agio. Parlammo da amici. Non da prete a delinquente, ma da fratello a fratello, come nell’incontro tra Jean Valjean e il vescovo Myriel ne “I Miserabili” di Victor Hugo. Capivo che, accanto a me, quasi coetaneo, non c’era un uomo in giubbotto con pistola, ma un profondo innamorato della libertà. Di quella libertà da tutte le catene, che negano e distruggono la dignità della persona umana.

Nessun commento:

Posta un commento